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Bill e le parole della Costituzione: stampa e informazione

Proseguono gli incontri su “Le parole della Costituzione“, i seminari della Biblioteca della Legalità con IBBY Italia, realizzati grazie ai costituzionalisti di Salviamo la Costituzione.

A Più libri Più Liberi, accolti dalle Biblioteche di Roma, Maria Romana Allegri, docente di diritto pubblico presso l’Università La Sapienza di Roma, ci ha parlato delle parole “stampa” e “informazione” e abbiamo appreso che, anche in questo caso, “l’esercizio dei diritti e delle libertà non è mai privo di limiti ma, al contrario, deve essere limitato ogni qual volta si scontra con l’esercizio di diritti e libertà altrui, parimenti meritevoli di tutela”.

Vi proponiamo una sintesi dell’intervento, scritta dalla professoressa Allegri: un intervento che ci sollecita ulteriori approfondimenti e riflessioni.

“Le parole della Costituzione” non si fermano e la programmazione ripartirà a fine gennaio 2022.

L’articolo 21 della Costituzione sancisce al comma 1 che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione“.

L’avverbio “liberamente” suggerisce che la libertà riguardi non solo il contenuto del pensiero che si intende manifestare, ma anche l’atto stesso di esprimersi: pertanto nessuno deve essere obbligato a rivelare forzatamente le proprie idee (diritto al silenzio). Il riferimento al “proprio” pensiero non va interpretato in senso restrittivo: la libertà di espressione si estende, infatti, al pensiero altrui fatto lecitamente proprio, alle notizie e ai fatti di attualità, alle conoscenze e in genere le informazioni. Dunque, l’articolo 21 può adeguatamente fungere da base giuridica per la disciplina del diritto-dovere di cronaca, su cui si fonda l’attività giornalistica.

Fra tutti i mezzi di diffusione del pensiero, i Costituenti hanno privilegiato la stampa, quale principale mezzo d’informazione dei cittadini e, quindi, della formazione di una pubblica opinione avvertita e consapevole (Corte Cost., sent. 105/1972), trascurando altri mezzi di comunicazione, come la radio o il cinema, che pure erano, all’epoca, ampiamente diffusi. I Costituenti hanno infatti voluto sottolineare la decisa reazione rispetto all’esperienza fascista, ripristinando la libertà individuale di esprimersi attraverso la stampa, che durante il fascismo era stata duramente repressa. Quindi, il secondo comma dell’art. 21 prevede il divieto, riferito alla sola stampa, di provvedimenti amministrativi di carattere preventivo, quali le autorizzazioni e le censure, che impediscono ab origine la pubblicazione di determinati contenuti, ostacolando così la libertà di espressone del pensiero. Al contrario, un provvedimento repressivo successivo alla pubblicazione, quale il sequestro degli stampati, viene ammesso e disciplinato dai commi 3 e 4 dell’art. 21 ma, sempre come reazione all’esperienza fascista, il suo utilizzo viene limitato ai casi di reati previsti espressamente dalla legge (riserva assoluta di legge) e vincolato alla previa autorizzazione motivata di un giudice (riserva di giurisdizione) che offra garanzie di imparzialità e indipendenza.

Lo sviluppo della tecnologia digitale ha imposto di considerare se e fino a che punto la normativa costituzionale sulla stampa, nonché quella dettata dalla “legge sulla stampa” n. 47 del 1948, possa applicarsi anche alla cosiddetta “stampa telematica“, cioè alla diffusione di contenuti attraverso Internet. Nell’ultimo decennio in varie occasioni la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla possibile applicazione analogica della normativa sulla responsabilità del direttore di una testata giornalistica (art. 57 c.p.) ai direttori di testate giornalistiche online, come pure della possibile estensione delle garanzie costituzionali sul sequestro degli stampati al sequestro (oscuramento) di pubblicazioni via internet. Se inizialmente la Suprema Corte si ostinava a ritenere la stampa telematica assolutamente eterogenea rispetto a quella tradizionale, negando l’estensibilità per analogia della disciplina vigente (es. sent. Cass. V pen. nn. 33511/2010, 44126/2011 e 10594/2014), più recentemente vi è stata un’inversione di tendenza, tale per cui  la Corte ha ammesso che alla nozione di stampa debba essere attribuito un significato evolutivo, in linea con il progresso tecnologico, che la stampa telematica è ontologicamente e funzionalmente equivalente a quella cartacea, che il termine stampa esprime anche un “significato figurato” poiché si riferisce ai giornali in ogni loro forma divulgativa, quali strumenti elettivi di informazione (Cass. V pen. nn. 31022/2015, 13398/2918, 1275/2019).

La parola informazione, a differenza della parola stampa, non è presente nella Costituzione. Tuttavia, la libertà non solo di diffondere informazioni e idee, ma anche di cercarle e riceverle, è sancita da vari atti di rilevanza internazionale, fra cui la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1950 (art. 19), il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (art. 19), la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (art. 10) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 11). Ciò significa che, al profilo attivo della libertà di espressione (comunicare liberamente il pensiero) si accostano il profilo riflessivo del medesimo diritto (libertà di ricercare e ricevere le informazioni, quindi di informarsi) ed il profilo passivo (libertà di ricevere le informazioni, quindi di essere informati). La Corte costituzionale non ha mancato di sottolineare questo nesso in più occasioni, rilevando l’interesse generale della società all’informazione (sent. 94/1977), evidenziando che la democrazia deve fondarsi sulla libera opinione pubblica (sent. 112/1993), ribadendo l’importanza fondamentale del pluralismo delle fonti di informazione (sent. n. 225/1974 e 155/2002).

Certamente, oggi internet consente alle informazioni di circolare con grandissima facilità e rapidità, cosa che rappresenta un grande vantaggio rispetto al passato in termini di acquisizione di conoscenze, ma che reca con sé non pochi rischi, fra cui la diffusione della disinformazione (informazioni false, o anche soltanto distorte, fuorvianti inattendibili, le cosiddette fake news) o di contenuti che possono incitare all’odio, alla violenza e alla discriminazione nei confronti di specifiche persone o categorie (il cosiddetto hate speech). Dinanzi alle più evidenti degenerazioni della circolazione di informazioni online, ci si chiede se non sia opportuno, o addirittura necessario, l’approvazione di leggi che reprimano e puniscano la diffusione di questi contenuti e ci si interroga se una normativa di questo tipo debba essere prodotta a livello nazionale o, piuttosto, non debba essere demandata ad una autorità sovranazionale, come l’Unione europea, stante il fatto che ad internet, per sua stessa natura, non possono essere imposte barriere territoriali e nazionali.

Non bisogna infatti dimenticare che, un ordinamento democratico costituzionale richiede inevitabilmente di applicare in ogni circostanza il principio del bilanciamento dei diritti: l’esercizio dei diritti e delle libertà non è mai privo di limiti, al contrario deve essere limitato ogni qual volta si scontra con l’esercizio di diritti e libertà altrui, parimenti meritevoli di tutela. Tuttavia, la libertà di espressione è a tal punto considerata un cardine delle società democratiche che i pubblici poteri, a livello sia nazionale che internazionale, mostrano comprensibilmente una certa ritrosia verso l’adozione per legge di misure restrittive e sanzionatorie, per timore che l’introduzione di forme di controllo sulla circolazione dei contenuti online possa di fatto tradursi in interventi censori.

La tendenza in atto, almeno a livello di Unione Europea, è quella di spingere le piattaforme digitali a aderire volontariamente a codici di condotta, i quali prevedano un certo grado di monitoraggio dei contenuti diffusi dai loro utenti e la rimozione, dietro apposita segnalazione, di quelli ritenuti inammissibili, in base alle condizioni d’uso del servizio che l’utente stesso ha accettato. Tuttavia, la scelta di affidare quasi integralmente agli intermediari digitali il compito di sorveglianza sui contenuti che circolano online desta non poche perplessità, essendo essi soggetti privati che agiscono sulla spinta di interessi economici e imprenditoriali e non certo in base al bene della collettività. Inoltre, la discrezionalità con cui ciascun prestatore di servizi digitali può determinare le clausole d’uso dei servizi offerti genera una sostanziale difformità fra le content policies applicate dalle varie piattaforme, che disorienta l’utente e talvolta può dare luogo a pratiche discriminatorie. Sarebbe, dunque, necessaria un’assunzione di responsabilità da parte del legislatore, più efficacemente a livello europeo anziché nazionale, affinché le dinamiche dell’informazione e della comunicazione possano essere orientate davvero al bene comune.

Maria Romana Allegri è professoressa associata di Istituzioni di diritto pubblico, docente di Diritto pubblico, dell’informazione e della comunicazione, presso Università di Roma La Sapienza, dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale.

 


Gruppo Bill

Valeria Cigliola, Fabio Dutto, Marta Marchi, Carlo Marconi, Elisabetta Morosini, Della Passarelli, Valeria Patregnani, Chiara Pinton, Alessandro Riccioni, Silvana Sola.


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