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Piccolo diario di Lampedusa (2)

 

22 aprile 2016
È la giornata mondiale della Terra. Mattina e pomeriggio incontro i ragazzi delle medie dell’istituto Luigi Pirandello. Una seconda, poi una terza, nel pomeriggio due prime. Gli dico subito che il mio cognome è un errore di grammatica, un congiuntivo sbagliato, e che fino a sei anni parlavo in dialetto. Perché si può crescere in una lingua, e non in un luogo. Parliamo del significato di alcune parole e di un’espressione che esiste solo in Sicilia, sciatu mio. Fiato mio. Hanno occhi attenti. Mi chiedono molte cose. Che cosa fa un bibliotecario. Da dove ti vengono le idee. Com’è fatto un treno. Chi era lo schiavo Zumbi. Matteo vuole sapere quanto c’è di vero nelle mie storie e quanto di inventato. Francesca mi recita una sua poesia sul mare. Antonio mi mostra i suoi disegni, Oscar ha gli occhi che danzano. Orazio mi regala un ritratto. Quasi tutti suonano uno strumento, molti sanno giocare a scacchi. Soltanto due ragazze non sono italiane, una moldava e l’altra thailandese, ma solo per metà.

In una pausa, tra un’ora e l’altra, Anna mi porta a vedere la Biblioteca per ragazzi che hanno messo su. L’edificio è al centro di una piazzetta nel corso. In via Roma. Qui, mi ha ripetuto in classe, con orgoglio, uno dei mille bambini di Lampedusa: “prima, d’inverno, era la strada dei fantasmi. Ora c’è una biblioteca.” Su un lato, è stato dipinto un enorme murales azzurro. Anna apre la porta, entra, tira su le persiane. La luce illumina un ambiente che sembra un asilo. Due stanze piene di colori e di libri. Albi illustrati, romanzi d’avventura. Alcuni sono in arabo e in altre lingue. Il bancone è al centro, come in ogni biblioteca. Molti disegni di bambini sono appesi su un filo perché dalle pareti si staccherebbero per via dell’umidità. Su un muro è stata disegnata una casa. Su un altro un treno giallo e rosso, con un vagone solo. Leggo la scritta di una bambina da un foglio: “IO VOGLIO UNA BIBLIOTECA PERCHÉ COSÌ MI SENTO MENO SOLA E SONO FELICE”.
Ma il destino di questa biblioteca è ancora precario. Non è stata istituzionalizzata. Non fa ancora parte di nessun sistema bibliotecario. Non si sa se potrà restare in questa piccola ma allegra sede. Non si sa neppure se potrà continuare a essere aperta. È nata su un progetto di IBBY Italia. E per ora ci pensano pochi volontari, gli stessi ragazzi, che vengono qui il pomeriggio, e fanno le tessere, danno i libri. È una biblioteca di frontiera, con piccoli bibliotecari di frontiera che, come l’uovo di una tartaruga, si è schiusa da sola.

Torno in una classe e dico ai ragazzi che le biblioteche si ammalano. Mi guardano curiosi. Sì, si ammalano, come gli esseri umani. Prima si prendono un raffreddore, poi gli viene la febbre. A volte sono malattie mortali. L’anno scorso hanno chiuso trecento biblioteche in Italia. Come fanno a morire, mi chiede una ragazza e la curiosità le arriccia i capelli. Le tolgono i soldi, non le fanno più comprare libri, non pagano chi ci lavora, non ne sostengono il progetto, non le assegnano una sede, e piano piano muoiono. Capisce molto più velocemente di chi avrebbe il potere di farle
sopravvivere. Ma un po’ già lo sanno, perché questa biblioteca la tengono aperta loro. Se ne prendono cura.

A casa mia c’erano solo tre libri. Lo ripeto a ciascun alunno. Non avrei mai potuto tentare di fare quello che ho sempre desiderato fare, cioè scrivere, se nella mia scuola elementare non ci fosse stata una biblioteca. È l’unica patria che riconosco, come diceva Elias Canetti.
Alla fine dell’ora, un’altra ragazza mi chiede: Ma secondo te è giusto che si debba pagare per il cibo? Non so rispondere. Ma nelle biblioteche, almeno, le dico, i libri te li danno gratis.

Sì, c’è davvero un equivoco di fondo intorno a questa isola, come prova a spiegarmi la gente che incontro. C’è una restituzione sbagliata della sua quotidianità. Un racconto distorto. Santificazione o demonizzazione. Noi non siamo lampedusanti, mi dicono, vorremmo soltanto avere cose che non abbiamo, che i nostri ragazzi non hanno, come un cinema o un centro sportivo, una libreria, qualche edicola in più. Una biblioteca, appunto. E che si riconosca la possibile normalità della gentilezza. Percepisco un senso di ribellione, un’allergia alla spettacolarizzazione insistita del dolore, della morte, dell’avvilimento di chi approda qui da continenti dimenticati quanto quest’isola, che non fa altro che anestetizzare ogni empatia, alterare e strumentalizzare ogni narrazione.

La morte dei migranti è una morte senza nome. Nel cimitero solo due lapidi lo hanno. Il problema è che si tende sempre a spersonalizzarli. Bisognerebbe lasciare parlare loro, dice Paola, non ciarlare di noi che siamo qui, da quest’altro lato del molo. Quello che insieme agli altri volontari facciamo, insiste, non è niente di straordinario. Tentiamo solo di dare quel poco di aiuto che un essere umano può dare a un altro essere umano. E restituirgli la soggettività che tutti gli negano.
Mi viene in mente l’arabo ucciso da Mersault ne “Lo straniero” di Camus. Un corpo steso su un bagnasciuga. Come un animale spiaggiato. Ho letto da poco Il caso Mersault, scritto da un algerino. “Ti riassumo la storia prima di raccontartela: – scrive Kamel Daoud – un uomo che sa scrivere uccide un arabo che quel giorno non ha neppure un nome – quasi l’avesse lasciato appeso a un chiodo prima di entrare in scena -, e poi comincia a spiegare che è tutta colpa di un Dio che non esiste e di ciò che ha capito sotto il sole”. È un libro che ci chiede conto. Racconta la stessa storia, ma dal punto di vista del morto. Dalla sabbia bagnata della riva. Abbiamo creduto di essere noi gli stranieri, di portare noi sulle spalle il peso dell’assurdo. Ma abbiamo preso una cantonata. Di quell’arabo steso per terra non sappiamo nulla, nemmeno il nome.
Paola ha ragione. I migranti continuano a essere invisibili. Da quest’isola transitano. Spesso non se ne accorge nessuno. È un punto di approdo, di primo soccorso, di smistamento. Passano, come le nuvole. E continuano ad arrivare, instancabilmente. Ogni due, tre giorni, almeno una volta alla settimana.

Dopo l’incontro con due prime medie nel pomeriggio, Fabio mi porta a visitare il centro che si occupa delle tartarughe marine. Ho sempre avuto una passione per questo animale. Per me sono un simbolo della nostalgia, della resistenza, e di tutte le migrazioni. Mio padre mi raccontava una favola, da piccolo: le tartarughe sono l’animale più orgoglioso e libero del pianeta, mi diceva, così libero che furono insofferenti pure di abitare nel giardino di Dio. Per questo Dio le punì, le costrinse a diventare lente sulla terra e solitarie in mare e a portarsi per sempre la loro casa sulle spalle.
Nelle vasche del centro ne vedo tre. La prima si chiama Jacopo. Ma solo perché questo è il nome di chi l’ha recuperata. Le tartarughe vivono di solito fino a cento anni, ma solo a trentacinque si capisce il loro sesso.
La ragazza che ci accompagna, gentilissima, è una volontaria. Era venuta per tre settimane, resterà due mesi. Ce ne sono anche altri. Puliscono, fanno da guida ai turisti, li sensibilizzano su questa specie in via di estinzione.
Penso all’esigenza di dare un nome che abbiamo, anche agli animali. Per riconoscerli. Distinguerli. Poterne raccontare la storia. E mi tornano in mente le parole di Paola: tutti hanno diritto a una storia, meno i migranti. Jacopo aveva un amo nell’esofago che usciva dalla bocca e una rete fantasma che si trascinava appresso. Le manca una parte di pinna. Forse per il morso di un palombo, un piccolo squalo del Mediterraneo.
La seconda tartaruga è la più grande: è qui dal 2007. Si chiama Homerous. Ha ricevuto una botta al carapace e subìto una frattura alla spina dorsale. La pinna danneggiata è quella posteriore, il timone che la dirige (mentre sono quelle davanti a dare la spinta propulsiva). Se la lasciassero andare, morirebbe. Non riuscirebbe a mangiare. Ruoterebbe su se stessa. Per questo fa fisioterapia tutti i giorni. Sperano ancora di salvarla.
L’ultima ha nome Chiara, per il colore. Sembra di miele e non la smette di nuotare nella vasca. È rimasta impigliata in una rete che le aveva segato la carne fino all’osso. Una pinna stava andando in cancrena, ma è stata curata e per fortuna non si è dovuta amputarla. La tirano fuori dall’acqua e me la fanno toccare.
Daniela, la direttrice del centro, mi spiega che le tartarughe sono animali ostinati, solitari, pieni di tenacia e di perseveranza. Non hanno confini, nessuna barriera. Se scompariranno, in mare avremo un sovrappopolamento di meduse, di cui sono predatrici: di conseguenza le piante si ridurrebbero e così anche l’ossigeno, con tutti gli effetti che possiamo immaginare. Poi mi mostra i barattoli in fila sopra un tavolo. Sono pieni di piccole tartarughine in formalina, con l’involucro dell’uovo appena schiuso. Sono quelle che non ce l’hanno fatta a sopravvivere.
Il giorno della Terra, che si celebra oggi, mi dice Daniela, fu istituito il 22 aprile del 1970. Pure di questo bisogna parlare ai ragazzi. Basta che la temperatura del pianeta aumenti di un altro grado e mezzo e la situazione diventerà irreversibile. Abbiamo appena trenta, quarant’anni di tempo per intervenire. E ricordarci che l’uomo di Neanderthal aveva trecento gradi di cervello in più di noi, ma si è estinto per la glaciazione. Non sopravvive il più forte, ma il più adattabile, sarebbe bene tenerlo a mente. Homerous è un po’ come la Terra, come noi, come Lampedusa, penso, mentre esco dal centro. Esseri e isole con una pinna rotta, dal destino incerto.

Torniamo in macchina e Fabio mi porta a vedere la Porta d’Europa. Attraversiamo l’isola. Pochissimi alberi. Qualche agave. Eppure, un tempo, quest’isola era boscosa. La comprarono i Borboni dai Tomasi, gli antenati del Gattopardo. Ma i Tomasi non l’hanno mai abitata né visitata. La diedero in affitto ai maltesi, che non gli pagavano però il censo. Allora decisero di venderla. Il re di Napoli la acquistò e provò a trasformarla in una colonia agricola. Mandò degli scienziati dell’epoca per redigere uno studio (su come portare l’acqua dolce, sulla posizione del porto, sulle condizioni ambientali). Poi spedì un capitano di vascello, Bernardo Maria Sanvisente, con 120 coloni, nel 1843. La storia moderna di Lampedusa comincia da quella data.
Dalla macchina vedo un’insenatura naturale. Si chiama Cala Galera, mi dice Fabio. A fine Ottocento ci mandavano dei prigionieri. Lampedusa ospitò anche Errico Malatesta, l’anarchico, che riuscì a fuggire per la Tunisia, andò a Londra, tornò ad Ancona, diede origine alla Settimana Rossa. Sotto il fascismo, Lampedusa diventò isola di confino. Domicilio coatto, ai limiti estremi della Nazione. Qui fu relegato un vignettista satirico e caricaturista, Giuseppe Scalarini perché la satira ha sempre infastidito i regimi (i fascisti lo aggredirono, gli fratturarono una mandibola, poi lo condannarono a cinque anni tra Lampedusa e Ustica, e alla fine gliene condonarono due). Anche Guido Picelli vi fu esiliato (prima socialista, poi comunista, poi antistalinista, Picelli aveva fondato gli Arditi del popolo, guidato il fronte unico antifascista a Parma, era emigrato in Unione Sovietica, per finire la sua vita nel Poum, battaglione Garibaldi, morendo a 47 anni sul fronte di Mirabuena, durante la guerra civile spagnola per la sventagliata di un mitra nemico o per un colpo di pistola alle spalle).
Parcheggiamo. La Porta d’Europa è un monumento di Mimmo Paladino, per i migranti deceduti e dispersi in mare. È indirizzata nel luogo in cui avvenne un naufragio e sorge accanto a un bunker della seconda guerra mondiale. Qualche anno fa, quando Lampedusa venne invasa da una migrazione di massa di tunisini, questo luogo lo chiamarono la collina della vergogna. Perché ci dormivano in migliaia.
All’ora in cui arriviamo noi, non c’è nessuno. Fabio mi mostra una specie di camomilla che cresce solo qui, una pianta endemica. In un viaggio di venticinque anni fa raggiunsi Cabo da Roca, sopra Lisbona. Il punto più a occidente d’Europa, dove la terra finisce e il mare comincia, secondo un verso di Camões. Lampedusa è l’isola più a sud. E mi torna alla memoria l’incipit del romanzo di Saramago che ho amato di più: Qui il mare finisce e la terra comincia.

Parlo con Fabio e mi accorgo che anche i suoi occhi reclamano un’utopia possibile. Niente di prodigioso o irrealizzabile. Un’isola senza automobili o motorini che non siano elettrici, per esempio. In fondo, Lampedusa è lunga solo undici chilometri. Ed è battuta dal vento. Si potrebbero usare altre forme d’energia, non quelle prodotte dai combustibili. Basterebbe un parco di pale eoliche in mare. Pannelli fotovoltaici. Allora sì che quest’isola diventerebbe per davvero la porta di una nuova Europa.
In fondo, come diceva Eduardo Galeano, l’utopia è come l’orizzonte che abbiamo di fronte. Non si potrà raggiungere, ma ci serve per andare avanti. Siamo solo noi che non riusciamo più a immaginarlo.

(continua)

(illustrazione di Lorenzo Terranera)


Fabio Stassi

Di origini arbëreshë della Sicilia, vive a Viterbo e lavora a Roma presso la Biblioteca di Studi Orientali della Sapienza. Scrive viaggiando in treno fra Viterbo, Orte e Roma. I suoi libri: con Sellerio "L’ultimo ballo di Charlot", tradotto in diciannove lingue (2012, Premio Selezione Campiello 2013, Premio Sciascia Racalmare, Premio Caffè Corretto Città di Cave, Premio Alassio Centolibri); "Come un respiro interrotto" (2014); un contributo nell’antologia "Articolo 1. Racconti sul lavoro" (2009); "Fumisteria" (2015, già Premio Vittorini per il miglior esordio); "La lettrice scomparsa" (2016, Premio Scerbanenco); "Angelica e le comete" (2017); "Ogni coincidenza ha un'anima" (2018). Ha inoltre curato l’edizione italiana di "Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno" (2013) e "Crescere con i libri. Rimedi letterari per mantenere i bambini sani, saggi e felici" (2017). E inoltre, "È finito il nostro carnevale" (Minimum Fax); "La rivincita di Capablanca" (2008); "Holden, Lolita, Zivago e gli altri. Piccola enciclopedia dei personaggi letterari" (Minimum Fax, 2010); "La leggenda di Zumbi l'immortale" (graphic novel per Sinnos ed., 2015); "Il libro dei personaggi letterari. Dal dopoguerra a oggi" (Minimum Fax, 2015); "L'alfabeto di Zoe" (Bompiani, 2016, Premio Giovanni Arpino 2017). Ha collaborato con vari quotidiani e riviste.


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